Da La Repubblica .it
di CINZIA SASSO
IL PAESE dove i padri stanno meglio dei figli, dove il passaporto come una laurea prestigiosa apriva tutte le porte, dove il merito contava qualcosa, dove invece oggi bisogna pensare ad andarsene per avere un futuro, si vede bene da qui, dal salotto di questa bella casa borghese. Milano, zona di porta Romana, Siracusano è il cognome stampato sulla targhetta. Basta suonare il campanello, farsi raccontare, ed ecco la storia. Bruno, il padre, si è laureato alla Bocconi con 110 e lode nel '74 e nel giro di qualche settimana ha ricevuto quaranta offerte di lavoro. Alice, sua figlia, dalla Bocconi è uscita - benissimo - nel 2007: ma per cominciare ha trovato solo uno stage e poi, grazie alla presentazione di un'insegnante, è riuscita ad avere, uno dopo l'altro, per ora, due contratti a progetto. Gianluca è iscritto al terzo anno e se tutto va come sta andando, cioè alla grande, otterrà la laurea nel 2011; nel suo futuro, però, non c'è posto fisso, non c'è nemmeno un contratto a tempo parziale, c'è soltanto la nebbia. Oppure la fuga all'estero. Così come del resto fa un laureato su cinque, proprio della Bocconi. Ieri, in un'aula dell'università di Bologna, durante la sua lezione di statistica sociale, il professor Andrea Cammelli ha letto ad alta voce la lettera che Pier Luigi Celli, attraverso Repubblica, ha inviato al figlio, Mattia. "Riga dopo riga - racconta Cammelli, che è anche il fondatore di Alma Laurea, il consorzio di 55 atenei italiani che da quindici anni lavora per sposare domanda e offerta - mi ha fatto crescere l'angoscia. Concludere che è necessario andarsene per poter avere un futuro, è terribile: ai miei studenti parlo di investimenti nel capitale umano, dell'importanza di questo per il sistema Paese, e quelle parole mi hanno fatto venire il groppo in gola. In Italia 74 laureati su 100 sono i primi della loro famiglia a raggiungere quel traguardo, e dover dire che lo sforzo fatto da loro e dai loro genitori non serve a niente è terribile".
La crisi sta picchiando più duro soprattutto sui giovani. E tra i giovani si accanisce di più su quelli bravi. Soprattutto in un Paese immobile come l'Italia, dove i giovani sono destinati a restare una generazione senza voce. Perché, se le aziende si strappano i capelli denunciando che non riescono a trovare tornitori e meccanici e, come dice Unioncamere, l'offerta di lavoro per gli infermieri è del 50% inferiore alla domanda, quella che è crollata è la richiesta di figure di un certo spessore. Insomma, chi più ha investito sulla propria preparazione, chi ha cercato di essere competitivo raggiungendo i risultati migliori, non trova più nella buca delle lettere, come accadeva al dottor Siracusano padre, decine e decine di offerte di lavoro. Key2People, società di executive search, ha studiato il mercato del lavoro dell'ultimo anno e ha fatto scoperte sconvolgenti, presentate in un recente seminario alla Luiss: messi a confronto i primi tre mesi del 2008 con il gennaio, febbraio e marzo del 2009, ha evidenziato un calo nella richiesta di giovani laureati pari al 46 per cento. Il settore che ha fatto registrare il crollo più significativo - 52 per cento - è quello della logistica: 11.100 domande un anno fa contro le 5.400 di quest'anno; meno 35 per cento per il settore produttivo; meno 36 per l'information technology; meno 33 nelle risorse umane; meno 45 per marketing e comunicazione; meno 25 per amministrazione e finanza. Tengono i ruoli delle vendite, con un segno negativo che è "solo" del 9 per cento; e registra un segno positivo - più 6 - soltanto il settore legale, con una modesta offerta per fiscalisti, avvocati di diritto societario, giuslavoristi. "Le nostre ultime rilevazioni - dice Cristina Calabrese, partner di Key2People - mostrano che il mercato degli annunci, cioè la ricerca di personale qualificato, ha subito un crollo, con alcune aree che hanno chiuso completamente i battenti". Colpa della congiuntura, non c'è dubbio. "Per un'azienda - aggiunge Calabrese - assumere un neolaureato vuol dire avere risorse a disposizione per investire su di lui; e nei periodi più critici c'è molta offerta, anche qualificata, a un prezzo inferiore, dunque assumere giovani non è competitivo". Gli economisti Paul Beaudry e John Dinardo avevano già formulato questa sorta di legge economica: chi esce dall'università in un momento di crisi entrerà nel mercato del lavoro a condizioni peggiori e ne pagherà il prezzo per tutta la carriera. Andrea Ichino, che insegna Economia dell'istruzione a Bologna e ha appena mandato in libreria "L'Italia fatta in casa", dice: "In un momento di crisi di queste dimensioni è ragionevole aspettarsi che le aziende non cerchino: ma succede anche ad Harvard, a Standford. Quello che bisognerà vedere, piuttosto, è se l'anno prossimo la tendenza si invertirà". Ichino è ottimista: "La crisi sta già passando; quello che stiamo registrando adesso non sarà per l'eternità". Anche Guido Tabellini, rettore della Bocconi, distingue il trend dal momento congiunturale e un evento recente gli dà ragione: al Bocconi & Jobs del 7 novembre, l'incontro tra i laureati e il mondo del lavoro, si sono presentate 87 imprese, il 40% in più rispetto al 2008. "Le aziende - assicura il rettore - continuano a essere molto interessate ai nostri studenti, e il 60% trova un'occupazione ancora prima di uscire dall'università. Certo, qualcosa è cambiato: uno su cinque dei nostri ragazzi, adesso, il lavoro lo trova all'estero". Se sia una fuga obbligata o una scelta, è difficile dire. Elisabetta Tarizzo, ad esempio, pensando al futuro ha cominciato a trasferirsi a Londra già per studiare: vorrebbe occuparsi di beni culturali, ma ha presente che nel Paese più ricco di arte del mondo non c'è posto per gli specialisti del settore e allora spera che un corso di studi al Courtauld Institute of Art sia un lasciapassare migliore. Il fatto è che in Italia c'è un "tappo". Roger Abravanel, l'autore di un libro-cult "Meritocrazia", lo spiega così: "Qui da noi il blocco è nella leadership, sia in politica che nelle imprese. La nostra è una società immobile, che non riconosce il merito: si premia la struttura padronale, familiare, che basta a se stessa e che non si mette in competizione. E i giovani bravi o si affidano alle raccomandazioni o se ne vanno". L'analisi di Abravanel, che è già stato chiamato a fare 300 conferenze in giro per l'Italia (segno di una diffusa sensibilità all'argomento), è impietosa: "La meritocrazia in Italia non esiste, la selezione avviene solo sulla base del nome che porti o della famiglia a cui appartieni, mentre all'estero, ad esempio nei Paesi emergenti come la Cina, la scuola ha come obiettivo quello di azzerare i privilegi di nascita. Noi siamo vecchi, conservatori. E, se non vuoi crescere, non ti servono i giovani e nemmeno i talenti". Che il problema non sia solo dei giovani, ma del Paese, è anche opinione del rettore Tabellini. "Viviamo in un mondo globale, e non è negativo che i nostri ragazzi trovino lavoro all'estero - osserva - è preoccupante, però, che non ci siano stranieri che vengono a trovare lavoro nel nostro Paese". Cammelli aggiunge un dato: "L'anno scorso abbiamo ceduto alle aziende, italiane e straniere, 450mila curricula di laureati. Quest'anno abbiamo avuto il 27% in meno di richieste, anche per lauree come ingegneria e informatica. Se le aziende fanno fatica, rischiano di dover ridurre per primi gli investimenti sul capitale umano e questo vuol dire ipotecare il futuro: una volta usciti dalla crisi, ci ritroveremo all'ultimo posto". L'Italia all'ultimo posto e i nostri ragazzi in giro per il mondo a far vedere quanto sono bravi.
(1 dicembre 2009)