21/12/08

Una storia

Giammattei, la segretaria sconfitta: così fui fatta fuori dai boss del partito
Scritto da Antonello Caporale da la Repubblica, 21-12-2008 07:40

Era un capobastone, lo ricorda perfettamente. «Ricordo il suo modo aggressivo, ricordo il vestito e tutto quell´oro. Ricordo di aver avuto paura. Ma soprattutto ricordo quella frase che mi recitò con piglio teatrale: "Io sono un capobastone"».
Emma Giammattei è stata la prima segretaria del Partito democratico di Napoli. Sei mesi è durata l´avventura, dal dicembre dello scorso anno agli inizi di giugno di quest´altro. «Sono tornata al Suor Orsola Benincasa, dove insegno letteratura italiana. Mi occupo di retorica. E può darsi che sia vero quello che mi dicevano gli amici al partito: "la politica non è roba per te"».Lei ha cinquantanove anni, un marito, un figlio e un´esperienza di soli due anni come assessore a Castellammare di Stabia, nella giunta guidata dall´ex senatrice, Ersilia Salvato. Nella confusione seguita al primo vagito del Pd, fu chiamata a guidarlo. Conosceva benissimo, per averne letto e scritto, Benedetto Croce. Ma nulla, proprio nulla di Roberto Conte, del gruppo dei "riformisti coraggiosi", consigliere regionale della sponda Margherita, inquisito e poi arrestato per corruzione. «Ero terrorizzata quando entrava nella stanza, e mi colpì quella parola che un giorno pronunciò con una chiarezza intimidatoria: sono un capobastone. Volle dirmelo per darmi il senso della sua influenza, offrirmi la paura come segno della sua presenza». La professoressa Giammattei non riusciva a raccapezzarsi in quei corridoi napoletani: «La cosa che mi impressionava erano i corpi separati. La slealtà dell´uno con l´altro. Il principio vigente era l´assoluta assenza di regole, di qualunque regola. Valeva solo la fedeltà o l´opposizione ad Antonio Bassolino. Proposi un codice etico. Mi fecero capire che la politica era un´altra cosa. Clan combattenti in una deriva libanese, in un corpo a corpo che mi rendeva incredula ma mi trovava inutile, superflua, evanescente. La più grande colpa di Bassolino, e forse troppe gliene abbiamo date in uno scaricabarile che diviene utile a molti ma non dignitoso per tutti, è di non aver mai controllato e messo in riga, mai invitato alla sobrietà dei comportamenti, imposto un po´ di disciplina e il senso del limite». La signora non si raccapezzava e anche il suo linguaggio, troppo accademico, produceva straniamento: «Mi dicevano: ma come parli? E forse sì, non trovavo sintonia lessicale, le mie parole suonavano male, bizzarre. Ma il problema vero e che vedevo smarrita l´amicizia, l´unità d´intenti, un minimo comun denominatore». La slealtà. «Slealtà umana, sì. Giochetti e trabochetti, riunioni coperte, intese nascoste. Volevo fare una iniziativa per le donne e subito protestava il gruppo che si sentiva escluso. E immediatamente complottava, irrideva, svuotava, denigrava». A Napoli la vita scorre feroce e anche la politica prende passioni sanguinolente: «Mi ritenevano un pericolo, certo qualcosa più di un problema. Condurre un partito non è impresa facile e può essere che ciascuno stimi così grandemente se stesso da smarrire la misura e la consapevolezza degli errori che commette. Sono laica e il dubbio mi deve sempre tenere compagnia. Però si arrivava ad aspetti grotteschi di questo gioco di società. Massimo D´Alema venne a Napoli in campagna elettorale per dare una mano a Bassolino. Qualcuno ritenne però che la mia presenza a quelle manifestazioni fosse controproducente al punto da consegnarmi errati i luoghi e l´ora dei comizi. Non mi volevano e me lo facevano capire. Mi accorsi subito, nel dicembre scorso, che l´emergenza rifiuti avrebbe travolto tutti. Bassolino mi lapidò con questa frase: "C´è chi ha fretta di vincere e chi ha fretta di perdere". Ho perso infatti». Antropologia politica. Per una docente sarebbe un bel tema di indagine. «Effettivamente il cambiamento antropologico abbisognerebbe di maggiore riflessione. Perché la modernità ci ha così cambiati, perfino nelle posture, e così rovinati? Credo che il Pd sia stato inguaiato dalle elezioni. Troppo presto sono venute, e troppi erano gli appetiti che quella competizione sollecitava. Troppe, tante, le adesioni utilitaristiche, la corsa a fare le cordate, il trust di voti senza che ci fosse un rastrello a separare le amicizie buone da quelle cattive, i voti puliti da quelli fetidi». Giammattei ha il diario aperto dei suoi mesi, «passati a correre da una città all´altra della provincia di Napoli. E mi impressionava assistere alla guerra di fazioni. Andavo ad Acerra e c´era un Pd in maggioranza e un altro che si opponeva in consiglio comunale. E così a Castellammare di Stabia e in tanti, troppi posti. Due partiti che si odiavano. Non ho avuto nessuna possibilità di incidere, non avevo poteri né la forza, forse l´autorevolezza che serve in questi casi. Ma Roma ha sempre saputo. Ecco, se mi è permesso, vorrei consigliare a Walter Veltroni di essere fermo e tempestivo negli interventi.
Roma non deve apparire cieca. Sia finalmente presente. Sono tante le persone che non stanno al posto giusto. Tutte facce vecchie erano accanto a me e oggi sono accanto a chi mi ha succeduto. Un partito nuovo apre ai giovani, ma non a quelli nati in cattività, immessi nel circuito assessorile, educati già all´idea che la politica è potere senza passione. I giovani, quelli che sognano davvero»